Avere cura di noi stessi è la prima cosa da fare se abbiamo a cuore il benessere delle persone che amiamo. Non ci credi? Te lo spiego con un racconto sul self care materno in regalo per te. E a fine articolo, un altro bonus speciale: un pdf scaricabile con tanti esempi pratici.
Ci è stato sempre detto che il tempo per il riposo e per la cura del nostro benessere psicofisico è secondario, residuale. Qualcosa a cui dedicarci solo quando abbiamo portato a termine altri compiti “primari”: un lavoro da consegnare, le richieste dei figli da soddisfare, la cena da preparare. C’è sempre qualcosa di più importante, di più urgente. Il nostro self care, in fondo, può sempre aspettare.
Non sorprende allora il fatto che siamo l’ennesima generazione di madri che fatica a percepire il valore e i benefici che si nascondono dietro un atto di gentilezza rivolto solo e unicamente a noi stesse. Solo che la nostra, a differenza di quelle precedenti, è una generazione di madri spesso sole, senza un sistema di supporto e una rete di sostegno adeguata. E proprio per questa generazione – sempre più a rischio di burn out genitoriale – il problema della carenza di self care si fa sempre più urgente, così come diventa necessario iniziare a normalizzare alcune conversazioni che dovrebbero ruotare attorno a questi preziosissimi momenti di cura.
Perché è necessario mettersi al primo posto

Lo so, è difficile rispondere a questa domanda. Siamo così abituate a mettere le esigenze degli altri – soprattutto quelle delle persone che amiamo – prima delle nostre che diamo per scontato che sia la cosa più giusta e sana da fare per coltivare le nostre relazioni.
E allora cambiamo prospettiva: perché è controproducente mettersi sempre all’ultimo posto?
Potrei elencarti mille motivi, tra cui:
- Stanchezza cronica che ti impedisce di godere del tempo trascorso con le persone che ami
- Rabbia e altre emozioni difficili da gestire che si ripercuotono sulla qualità delle nostre relazioni
- Difficoltà nell’accogliere con rispetto ed empatia le emozioni altrui
- Incapacità di comunicare in maniera assertiva e non aggressiva
- Scarsa tolleranza per gli imprevisti che possono accadere quando meno te lo aspetti (e quando meno ne avresti bisogno!)
Perché le relazioni non fioriscono su un terreno arido, ma vivono nell’intersezione delle zone di crescita di due o più persone.
Avere cura di noi stessi, quindi, è l’unico vero modo per aver cura anche degli altri.
Perché un racconto per spiegare

Ho deciso di scrivere un racconto sul self care materno non solo perché sentivo l’esigenza di togliere uno stigma pesante da questa preziosissima pratica.
L’ho fatto soprattutto perché credo nel valore delle storie.
Tutti noi abbiamo bisogno di identificarci in qualcosa. E soprattutto quando si tratta di emozioni scomode, desideriamo trovare una connessione, una risposta negli stati d’animo di qualcun altro.
In fondo le storie sono proprio questo: uno specchio grazie al quale possiamo osservarci e vedere dettagli che si erano nascosti da qualche parte, tra i pensieri a cui spesso preferiamo togliere la voce, per non dovercene vergognare.
Questa che ti regalo è la storia di qualcosa che è caduto a pezzi, per poi rimettersi insieme e scoprire, tra quelle crepe, un tesoro di grandissimo valore.
Leggi fino alla fine e scopri come ottenere il pdf scaricabile con tanti esempi di conversazioni che possiamo riscrivere per permetterci di prenderci cura di noi stesse con gioia e gratitudine. E soprattutto, senza sensi di colpa.

«E quindi mi ha detto proprio così, cose da matti!» disse la signora Vasofiori agitando i suoi capelli color lavanda.
Mammabbrocca sorrise. «Cosa?»
Si era distratta mentre la sua amica di sempre parlava, ma non riusciva a farsene una colpa.
Quel giorno – un giorno di metà inverno – c’era un sole caldissimo che scalpitava per entrare in casa. Mammabbrocca si trovava sul tavolo di legno scheggiato, esattamente al centro di un cono di luce.
Sembrava dovesse esibirsi di fronte ad un mare di utensili da cucina.
E invece se ne stava lì, col sorriso sulle labbra a bearsi di quella luce inaspettata e delle chiacchiere apparentemente senza senso della sua amica.
«Specchioriflesso!» urlò la signora Vasofiori, come se quel nome potesse offrire a Mammabbrocca un appiglio a cui aggrapparsi per ritornare a terra.
Lo vedeva benissimo che la sua mente era volata via, in un luogo diverso. Quasi la invidiava. Dal suo sorriso, quello in cui era finita sembrava un luogo bellissimo.
«Specchioriflesso mi ha detto proprio così: un tempo ho aiutato un bambino a vedere una stanza che si nascondeva tra il suo petto e la sua pancia». Fece una pausa per riaggiustarsi la chioma scompigliata. «Quello è stato sempre un tipo strano» sentenziò alla fine, scrollandosi dalle braccia qualche petalo.
«No, non è strano. Lui ha le sue verità, così come noi abbiamo le nostre verità, quelle che non sempre riusciamo a vedere da soli. Tutti noi abbiamo bisogno di una mano. Forse anche quel bambino.»
Mammabbrocca conosceva da anni la signora Vasofiori. Sapeva che era una donna molto profonda e delicata, il più delle volte. Ma quando non capiva qualcosa, tendeva a relegare quel qualcosa nella dimensione della stranezza. Le appiccicava addosso la sua versione di quella storia («è strano», «è pigro», «è geloso») e la archiviava così com’era, in una scatola anonima, nella sua testa.
Mammabbrocca la accettava, la accoglieva. Le voleva bene così com’era.
Sapeva che nel momento più buio della sua vita, quando lei ne aveva avuto più bisogno la signora Vasofiori – pur non capendo pienamente la sua sofferenza – le era stata sempre vicina e l’aveva dissetata a costo di far essiccare i suoi bellissimi fiori.
Per lei quella presenza silente valeva tantissimo, le era assai grata.
E quindi non disse nulla, quando la sentì rispondere che una verità non è una verità se la vede solo una persona, quindi Specchioriflesso è un po’ matto per davvero.
Mammabbrocca però sapeva che non era proprio così.
La sua verità, la verità del suo dolore antico, non la vedeva nessuno. Eppure, era finita in fondo alla sua pancia e l’aveva portata a spaccarsi.
Quel dolore era vero, le sue crepe erano vere, e facevano anche tanto male.
«E poi mi chiedo» riprese la signora Vasofiori che voleva a tutti i costi provare la tesi dell’assurdità delle verità personali «e poi mi chiedo proprio cosa succede, dopo.»
«Dopo cosa?» rispose Mammabbrocca.
«Dopo che uno riesce a vedere la sua verità. Che se ne fa, dopo?»
«Cambia le storie, le conversazioni.»
«Con chi?»
«Con sé stesso.»
«E’ quello che hai fatto anche tu?» domandò la signora Vasofiori.
Erano un po’ di giorni ormai che aveva notato la presenza di una nuova linfa vitale nella pancia della sua amica.
«Sì, l’ho fatto anche io. Ho riscritto dieci importanti conversazioni con me stessa. Ho aperto dieci porte chiuse che mi impedivano di sentirmi piena.»
«E dove sono ora?»
«Le conversazioni, dici?». Non aspettò risposta, e indicò il bordo superiore del suo corpo lucido e fresco. «Tutte qui, nella mia testa.»
«E’ un peccato» disse la signora Vasofiori «mi piacerebbe tanto leggerle».
Se c’è una cosa che ha il potere di aprire la mente delle persone sono le parole, pensò Mammabbrocca.
E con quel pensiero nella testa volteggiò su sé stessa e fece cadere un bel po’ di acqua sul tavolo: tutto quel tempo in compagnia della sua amica l’aveva riempita fino all’orlo. Percorse – stando attenta a non scivolare – lo spazio che la separava dal bordo del tavolo e poi saltò giù.
«E adesso, dove vai?» urlò di nuovo la signora Vasofiori.
«Ti piacerebbe leggerle, no? Allora non mi resta che scrivertele.»
Mammabbrocca camminò tintinnando sul pavimento freddo della cucina. Attraversò la stanza lentamente: quasi le dispiaceva separarsi dal calore della luce che aveva tinto tutto di rosso e arancio.
Arrivò nel punto esatto dove la vita caotica e rumorosa della cucina cede il passo al tempo lento e dilatato del soggiorno. In quel punto esatto c’era il posto che lei chiamava casa, la credenza verde salvia che custodiva le cose più importanti: Babbassoio, i loro sei bicchierini di ceramica e i fogli su cui ogni sera Mammabbrocca annotava tutti i suoi pensieri.
Iniziò ad arrampicarsi piano.
Scaffale dopo scaffale salutava tutti gli abitanti della credenza: teiere, tazze, caraffe e calici di vino.
Saltava di mensola in mensola con la voglia di perdersi tra le sue stesse parole, di sfilarsele dalla testa e accompagnarle su uno dei suoi fogli bianchi.
Alla signora Vasofiori piacerà tanto perdersi in queste storie, pensava.
Le storie.
C’è un posto migliore in cui perdersi e ritrovarsi, in fondo?
Se lo chiedeva spesso.
Nelle storie Mammabbrocca amava trascinarsi quando era triste, quando era felice, quando voleva condividere un momento fatto di niente con i suoi bicchierini.
Anche loro amavano tantissimo le storie.
Le leggevano e se le raccontavano a tutte le ore.
Quando Mammabbrocca arrivò a casa, ne stavano ascoltando una bellissima.
La più vera di tutte.
La sua.
«Perché ormai quello che sembrava un capriccio di una brocca un po’ egoista, era diventata una verità per tutti» recitava a memoria un bicchierino.
«Così naturale come bere un bicchier d’acqua» gli fece eco uno dei fratelli.
«Dai papà, dilla tu la fine!»
Babbassoio sorrise ai suoi bicchierini, raccolse il fiato e con la meraviglia un po’ artificiosa di chi legge qualcosa che ormai è scolpito nella memoria, li accontentò.
«Una brocca vuota non può dissetare nessuno».

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