Hai presente quando stipi qualcosa in cantina perché non sai dove metterla o perché “non si sa mai”?
Ecco, io credo che accada lo stesso con i bisogni e le emozioni più autentiche, quando smettiamo di ascoltarle. Le mettiamo via, perché non le guardiamo più, perché pensiamo che non ci servano più. Ti sei mai chiesta dove vadano davvero a finire?
Oggi ti voglio parlare proprio di questo: vieni, andiamo in cantina. Ti prometto che accenderemo la luce prima di scendere le scale.
La cantina: il luogo dei ricordi dimenticati
“IT” di Stephen King è una delle storie più potenti che conosco, che parla di amicizia, di amore, di sacrificio.
Lo inizi spaventata, lo finisci in lacrime perché non vuoi abbandonare Bill, Bev, Mike, Richie, Ben e Stan.
Lo struggente e doloroso prologo del romanzo inizia con una cantina: Georgie, il fratello più piccolo di Bill, deve prendere la paraffina per sigillare la barchetta di carta. È terrorizzato da quello spazio buio, cerca a tentoni la luce, si precipita ad afferrare il pacchetto di cera ed esce come un fulmine.
Ha paura della cantina, luogo buio, dove tra gli scaffali strapieni di cianfrusaglie e scatole impolverate vede affollarsi anche dei mostri terribili che vogliono fargli del male.
Nei nostri ricordi e nella nostra storia, capita la stessa cosa: in cantina chiudiamo i mostri e le vecchie scatole da scarpe piene di chissà cosa, stipiamo lì tutto ciò che non vogliamo vedere ma che sappiamo, in fondo, di non poter dimenticare.
E chissà, se ci facciamo coraggio, magari scavando tra ragnatele e quaderni dalle pagine ingiallite, potremmo scoprire anche qualche piccolo tesoro che pensavamo perduto per sempre.
Ovviamente, prima dobbiamo ricordarci di accendere la luce.
Chiusa fuori: l’episodio della cantina
In Chiusa fuori – il mio podcast sulla scrittura autobiografica – abbiamo percorso insieme tante stanze all’interno della nostra casa interiore.
Abbiamo parlato della camera da letto, della cucina, luoghi luminosi e pieni di allegria. Adesso è il momento di addentrarci in un angolo forse un po’ oscuro, ma che può permetterci di vedere la nostra storia con molta chiarezza.
Nell’episodio dedicato a questa stanza, in Chiusa fuori, faccio incontrare la protagonista con la mia bambina interiore.
La cantina, nel mio podcast e nel modo che ho di vedere la scrittura autobiografica, è una stanza in cui faccio parlare attraverso il tempo due versioni di me, perché simboleggia quella parte infantile, spensierata, irriverente e fresca, che sciaguratamente un giorno decidiamo di chiudere in un luogo lontano da noi, perché “bisogna crescere”.
È l’addio all’infanzia, è l’ultima notte di Wendy nella stanza dei bambini.
E se non abbiamo un Peter Pan che ci porta sull’Isola che non c’è, permettendoci di di allungare ancora un po’ i dorati anni infantili, dobbiamo essere noi a prendere coraggio, a cercare la chiave per andare ad abbracciare quella bimba che conta le stelle nel buio, anche quando le stelle ormai non ci sono più.
Quella bambina è “in punizione” in cantina da quando abbiamo smesso di ascoltarci.
Dal momento in cui abbiamo deciso che la nostra parte più istintiva, libera e, in un certo senso, anche un po’ selvaggia, andava domata, o andava messa da parte a favore di responsabilità e scelte importanti, per concentrarsi su quelle prospettive che ci avrebbero portate lontano.
Eppure, lei continua a parlarci dei nostri bisogni più istintivi e naturali, tanto da essere innegabili. Tornare da lei, abbracciarla e farla diventare – di nuovo – parte di noi è la cosa migliore che possiamo fare: perché solo così possiamo essere intere e vedere il mondo in tutti i suoi colori, anche quelli di un caleidoscopio che, fino a un attimo prima, era un semplice pezzo di vetro.
La scrittura autobiografica: un modo per connettermi con la me bambina
Scrivere, ormai lo sai, per me è stato fondamentale per riscoprirmi, crescere e creare un legame con la Valeria del passato.
Lo stesso vale per la Valeria piccola, quella bambina interiore che vive, anche se a volte non lo sospettiamo, dentro di noi.
Per questo ho deciso di dare alla me di qualche anno fa la stessa cura che riserverei a un personaggio di finzione: le ho dato una voce. Me la sono immaginata nei dettagli più minuti, e l’ho lasciata parlare, mettendomi in ascolto per capire ciò che voleva dirmi.
Si tratta di un esercizio che faccio spesso, e che chiamo del “Perché, perché, perché.” Ironicamente, faccio proprio come i piccoli! Da una domanda, o da un’affermazione, inizio a chiedermi: “Perché?”
E da lì all’infinito, domanda dopo domanda, risposta dopo risposta, fino ad arrivare al nocciolo della questione, a quel nucleo duro e adamantino. Le versioni di questo esercizio sono tantissime, ed è possibile che tu ne abbia già sentito parlare. In “Chiusa fuori”, ne ho usata una versione che ho preso in prestito da Ilaria Mangiardi.
Ps. A proposito di scrittura autobiografica, il mio workshop Storia Libera la donna OLTRE sta per tornare! Per scoprire tutti i dettagli puoi iscriverti alla lista d’attesa:
Nel frattempo, ti lascio esplorare questo esercizio in autonomia, magari dopo aver ascoltato la puntata che lo contiene. Adesso invece ti offro una piccola intervista, una chiacchierata con una professionista che di bambini e bambine interiori ne sa molto più di me.
L’intervista ad Antonella Calabrese
Per questo articolo, ho intervistato Antonella Calabrese, psicologa, psicoterapeuta e terapeuta EMDR. Antonella promuove la salute e la realizzazione personale e relazionale tramite percorsi che integrano consapevolezza, accoglienza di sé e incoraggiamento al cambiamento. Insieme abbiamo parlato proprio del bambino interiore: ti lascio alle sue parole.
D: Antonella, cosa si intende per bambino interiore?
Con l’espressione “bambino interiore” ci riferiamo all’immagine del bambino che siamo stati e che portiamo dentro di noi. In psicologia rappresenta una parte della personalità condizionata delle esperienze vissute durante l’infanzia: spesso non le ricordiamo a livello cosciente, ma sono molto impresse nel nostro inconscio con le paure, le preoccupazioni e i bisogni che abbiamo vissuto da bambini, ma anche tutte le esperienze gioiose e positive.
D: Se spesso non ne siamo coscienti allora come si manifesta questa parte, e qual è il modo in cui comunica con noi?
Il bambino interiore si può manifestare a noi con sofferenza o con gioia. Possiamo sentire il bambino interiore quando percepiamo una sorta di regressione delle nostre risposte abituali, o proviamo emozioni che ci sembrano ingiustificate – nella loro presenza o intensità – da una prospettiva adulta. Magari proviamo vergogna, rabbia, frustrazione, senso di impotenza, umiliazione, rispetto a eventi che da adulti definiremmo di poco conto. Probabilmente sono state toccate delle ferite aperte, e potremmo alleviarle domandandoci con compassione: quando mi sono sentito per la prima volta così? Cosa era successo? Come e da chi desideravo essere consolato?
Il bambino interiore si può manifestare a noi anche sulla base di convinzioni che abbiamo appreso durante l’infanzia e dalle quali fatichiamo a distanziarci: “Non sono capace”, “Non sono abbastanza bravo”, “Non posso dire la mia”, “Non essere stupido”, “Devo essere brava”. A questo proposito, per indagare questo aspetto potremmo chiederci: quali erano le frasi che affollavano la mia mente da piccola? Sono presenti anche ora? Pensandoci, ancora oggi sono lì ad influenzare la mia quotidianità?
Oltre a questo, il bambino interiore si può manifestare anche quando la vita ci lascia spazi aperti di gioco, di leggerezza e gioia, quando ci divertiamo veramente. Per rendercene conto, proviamo a pensare all’ultima volta che ci siamo sentiti estremamente radicati nel presente e vivi: cosa stavamo facendo?
D: Puoi dirci quindi cosa succede al bambino interiore quando ci sentiamo bloccati nella vita?
Quando percepiamo blocchi e sofferenze nella vita, il nostro bambino interiore risponde con le modalità con le quali era abituato a rispondere da piccolo, perché funzionali in quella realtà: chiudendosi e quindi tenendo per sé il suo disagio, oppure esplodendo con delle manifestazioni di rabbia.
Anche il dialogo interiore e le emozioni provate possono riflettere la prospettiva di quando eravamo bambini. Puoi interrogarti a riguardo: come esprimevi la sofferenza da piccolo? Come avresti voluto essere consolato?
D: E quando invece non lo ascoltiamo?
Una persona che non ascolta il suo bambino interiore continua a imporre regole, doverizzazioni o critiche alle quali era abituata, o vive seguendo i valori di chi l’ ha cresciuta. Questo produce molto dolore “inutile”, e rischia di bloccarci in un circolo vizioso di critica, impotenza e sensazione di non allineamento. Perdiamo così la possibilità di vivere invece l’accettazione, l’amore, l’autenticità e la realizzazione personale.
D: Ultima domanda, ma credo molto importante: come possiamo allenarci ad accoglierlo, ascoltarlo ed entrare in contatto?
Possiamo partire da un sincero desiderio di incontrarlo, di prenderci cura di lui e di noi stessi. Possiamo cominciare a ritrovarlo con una pratica di ascolto più lunga e poi dedicare dei minuti ogni giorno per stare insieme.
Si può iniziare con una meditazione in cui torniamo indietro e incontriamo il bambino che siamo stati, magari nella nostra casa di infanzia o nel nostro luogo preferito di quando eravamo bambini, con il nostro gioco preferito e anche un vestito di cui ci ricordiamo. Possiamo cominciare a osservarlo e poi chiamarlo a noi, abbracciarlo, fagli una carezza e lasciare che ci parli, che ci dica di cosa ha bisogno o quali sono le sue difficoltà.
Possiamo anche ascoltarlo, comprenderlo, incoraggiarlo grazie alla nostra prospettiva di adulti forti e amorevoli. Come? Scrivendo una lettera, o attraverso pratiche immaginative.
La consapevolezza del nostro bambino interiore ci eviterà conflitti e insoddisfazioni nelle relazioni interpersonali e nella nostra vita. Ricordiamoci sempre che anche le persone che hanno avuto un’infanzia felice hanno sicuramente subito delle ferite, dal momento che non esiste una infanzia perfetta o genitori perfetti.
Nel momento in cui faremo conoscenza e amicizia con il nostro bambino interiore potremmo scoprire quello che lui desiderava e ciò di cui ha bisogno. Quando andremo a curare le sue ferite, la nostra autostima crescerà e potremo costruire rapporti migliori con gli altri e con noi stessi.
Ti propongo alcuni esempi di pratiche.
Dedicare del tempo per stessi, tempo libero dalle azioni e dalla produttività; ricordarsi cosa amavamo fare quando eravamo piccoli. Possiamo riscoprire la passione per molte cose: colorare, ballare, prenderci cura di qualcosa che amiamo. Le bambole quando eravamo piccoli, che ora sono trucchi, borse, oggetti di arredamento.
Possiamo provare a rivedere alcuni film per bambini che continuano ad emozionarci, fare delle passeggiate, mangiare senza sensi di colpa, sfogliare album di foto per rivivere dei momenti passati e donare al nostro bambino qualche parola di accoglienza e incoraggiamento. Questo diventa un messaggio molto prezioso per il nostro inconscio: possiamo avere del tempo solo nostro per fare ciò che ci piace, anche se è quello che ci piace non è produttivo, anche se non ha uno scopo.
Il dialogo interiore ha un’importanza fondamentale, ed è altrettanto importante che impariamo a riconoscere il nostro dialogo e che scegliamo in modo intenzionale un linguaggio di dolcezza, stima, fiducia e anche sana fermezza.
Puoi anche trovare delle tue affermazioni positive che calmino il tuo bambino interiore, o potresti scrivere una lettera pensando a cosa vorresti dire a quel piccolo.
Quello di cui abbiamo discusso oggi è un argomento a cui tengo davvero tantissimo e per me era fondamentale esplorarlo in profondità con una professionista che potesse offrirmi chiavi di lettura diverse. Grazie Antonella per il tempo e la cura che hai dedicato a ogni parola.
E tu invece? Hai trovato interessante questo argomento e questo formato di articolo? Fammelo sapere nei commenti o vieni a raccontarmelo su Instagram: conoscere le tue preferenze può aiutarmi tantissimo per proporti articoli sempre più in linea con i tuoi interessi.
Ti aspetto!
Valeria